Esordio al Cibali

Da 16 Ricordi Scelti, DR eDizioni.

4.
29 ottobre 1989
Catania-Ischia

Una volta scacciato l’incubo retrocessione ci fu una specie di tregua emotiva di alcuni anni. Un periodo di mediocrità assoluta in cui mai le ultime partite di campionato hanno avuto alcun valore per la classifica, proprio quello che ci voleva per riprendersi dalle emozioni forti delle ultime stagioni.
Il ritorno in serie C aveva chiuso l’era della presidenza Massimino, personaggio assai pittoresco e accentratore che aveva l’unico requisito indispensabile per guidare il Catania: era abbastanza folle e innamorato da investire nel calcio in una città in cui, a parte le iniziative di facciata, imprenditori e amministratori erano storicamente del tutto disinteressati al fenomeno. I rapporti fra Massimino, la stampa e i tifosi catanesi furono sempre contraddittori, se non proprio schizofrenici, perché regolati unicamente dai risultati della squadra. Dopo la doppia retrocessione che aveva riportato il Catania in C, l’unico quotidiano cittadino si diede quindi un gran da fare per indurre Massimino a farsi da parte. All’inizio del 1988, al termine di una lunga trattativa, il Catania era così passato ad Angelo Attaguile, capofila di una fantomatica cordata di cui nel giro di pochi mesi era diventato l’unico esponente. Più politico che imprenditore, il nuovo Angelo rossazzurro era l’antitesi del vecchio. Se Massimino ricordava un giamburrasca cento volte più guascone, Attaguile aveva l’espressione ed il modo forbito di esprimersi tipico del primo della classe, quello che in ogni scolaresca che si rispetti finisce l’ora di educazione fisica a cantare chiuso in un armadietto, vittima suo malgrado del gioco il juke-box umano, ma che poi nella vita ha più successo dei compagni.
Il cambio al vertice, il primo da vent’anni a quella parte, aveva portato due novità che non mi piacevano per niente, anzi mi davano proprio sui nervi. Innanzi tutto la squadra cambiava spesso maglia. La tradizionale casacca a strisce verticali rossazzurre era quasi una rarità, ma la cosa fastidiosa era che non c’era nemmeno occasione di abituarsi ad un’altra divisa, perché i giocatori ne sfoggiavano sempre di diverse. Tendenzialmente erano a tinta unita. Passi per l’improbabile giallo fosforescente di alcune trasferte, ma che pure in casa si dovesse vedere un’anonima maglia interamente rossa o interamente azzurra non era concepibile.
In secondo luogo c’era il ben più grave fastidio dell’incoerenza nel modo di gestire la squadra. Normalmente la stagione cominciava con l’annuncio di un programma biennale con obiettivo il ritorno in Serie B. Arrivavano un nuovo allenatore e tanti nuovi giocatori, grazie ai quali figuravamo sempre fra le favorite per la promozione. Poi però la parola passava al campo e, puntualmente, ci perdevamo in una crisi di risultati che comportava l’esonero dell’allenatore e una rivoluzionaria campagna acquisti nella seconda fase del mercato. I correttivi di solito permettevano un tentativo di rimonta che si spegneva comunque in tempo utile per impedirci di superare la metà della classifica. Fin qui potevo anche accettarlo: poche emozioni significavano anche poca sofferenza, mi potevo godere la mia squadra senza dannarmi l’anima più di tanto, ma abituandomi gradualmente, partita dopo partita, all’idea che neanche quello fosse l’anno del riscatto. Era un po’ come tifare per la nazionale cantanti, o partecipare ad un campionato fatto di sole amichevoli, salvo nelle poche frazioni di stagione in cui c’erano elementi per temere di scivolare ai margini della zona retrocessione o per illudersi di agganciare il treno delle prime. Quello che proprio non tolleravo era che alla vigilia della nuova stagione si tornasse a rivoluzionare la squadra in sede di mercato, confermando al massimo l’allenatore: davvero un’interpretazione creativa e surreale, se non proprio grottesca, del concetto di programma biennale.
Fu durante una di queste annate che finalmente feci il mio esordio al Cibali. Fino ai quindici anni non ero mai riuscito a convincere mia madre a mandarmi allo stadio, e da solo (perché certo non mi sarei goduto lo spettacolo in compagnia mio padre, che sarebbe stato pressoché totalmente disinteressato all’evento sportivo e si sarebbe mosso intorno a me con circospezione da guardia del corpo). Quella volta la spuntai perché, con un colpo di genio, chiesi il biglietto per la partita come regalo di compleanno e nemmeno mia madre seppe dirmi di no, nonostante pensasse che andare allo stadio fosse più o meno come partire per una guerra. Non che non possa diventare pericoloso, ma a quei tempi non c’erano proprio i requisiti minimi per correre dei rischi: la squadra non entusiasmava abbastanza da attirare grandi folle e comunque una persona normale non aveva difficoltà a restare fuori dai guai anche nei rari casi in cui si verificava qualche sassaiola (una volta mi capitato di vederne una con i tifosi della Reggina, ma mi era bastato girare i tacchi per non essere coinvolto).
Il patto con mia madre prevedeva che non andassi solo, il che era un problema. Frequentavo la quinta ginnasio al liceo classico e nella mia classe non era impresa facile trovare qualcuno disposto a spendere dei soldi per accompagnarmi allo stadio. Avevo già perso di vista i miei vecchi compagni delle medie e non avevo molti amici o parenti o conoscenti per i quali non sarebbe stato un supplizio farmi quel favore. Ma non avevo scelta, dovevo trovare qualcuno. Alla fine decisi di sacrificare Antonio, proprio un compagno di classe del liceo, peraltro destinato a rimanere negli anni uno dei miei migliori amici. Sulle prime il nostro rapporto non era stato idilliaco, o meglio, lo era stato solo da parte sua, poiché io subivo ancora i retaggi culturali (o ormonali?) delle scuole medie, quelli che spingevano a scegliere gli amici in base alla dote di popolarità che potevano portare. In questo senso Antonio non poteva offrirmi molto di più di quello che io potevo offrire a lui, in più aveva un modo di porsi non immediatamente apprezzabile. Per esempio pretendeva di stringermi la mano ogni volta che arrivavo in classe, comunque sempre prima che posassi il mio zaino al mio posto. Io, che affrontavo la scuola e la vita con l’allegria del quindicenne brufoloso e solitario, avrei volentieri risposto prendendolo a calci e a parolacce. Per fortuna a poco a poco imparai capire il significato di quei gesti e ad apprezzare l’offerta di un’amicizia profonda e disinteressata.
Come sempre avrebbe fatto in futuro, anche quella volta Antonio fu presente quando ne ebbi bisogno. Al calcio preferiva di gran lunga il rugby, sport a cui la sua stazza e la sua vocazione alla fatica, insieme ai suoi principi di lealtà, lo indirizzavano naturalmente, ma nonostante questo fu felice di accompagnarmi. Poiché sua madre aveva a sua volta frequentato la stessa scuola della mia, fu facile dimostrare ai miei genitori che si trattava di una compagnia “sicura”. Andammo in tribuna coperta, il settore più snob dello stadio, quello dove il biglietto costa di più ma nessuno paga, quello più tranquillo, come prevedeva l’ultima delle condizioni dettate dai miei.
La prima giornata utile dopo il mio compleanno era la settima del girone meridionale del campionato di Serie C1, per la quale il calendario prevedeva che al Cibali arrivasse l’Ischia Isolaverde, formazione che avrebbe concluso il campionato con un’ingloriosa retrocessione. Il destino non poteva riservarmi una sfida più inedita e quindi meno affascinate, infatti è tuttora nella top ten delle partite più brutte che abbia mai visto al Cibali, una longevità che sa di record. Ricordo che in tutto il primo tempo ci rendemmo pericolosi in una sola occasione. D’altra parte era già quella fase di stagione in cui eravamo impegnati nel perdere punti dalle battistrada e nel prepararci il terreno per una rivoluzione in sede di calciomercato, per un cambio alla guida tecnica e per una rimonta destinata a fallire.
Nell’intervallo non ero entusiasta dello spettacolo, ma ero comunque felice di essere lì, anche se ero appena stato turbato da una scena sinistra. Poco dopo che l’arbitro aveva mandato le squadre negli spogliatoi, un anziano tifoso che sedeva poco lontano da noi si era alzato, aveva ripiegato con cura il foglio di giornale su cui era seduto e aveva sentenziato: “Beh, anche per quest’anno niente da fare, speriamo per il prossimo”, si era voltato e se n’era andato. Eravamo a metà della settima partita, nemmeno ad un quarto di stagione, e quel tipo aveva già capito come sarebbe andato a finire quel campionato. Con l’inguaribile ottimismo dell’innamorato cronico, mi aspettavo che i miei beniamini dimostrassero a lui e a chi la pensava come lui quanto si sbagliassero. Il guaio era che l’unico errore di quel signore stava nella pur timida speranza di un prossimo futuro migliore. Infatti alla fine arrivammo sesti a 39 punti, mentre la stagione successiva ci piazzammo decimi a quota 33, quella ancora dopo quinti a 34.
Io naturalmente non mi persi nemmeno un istante dello scialbo secondo tempo che condusse allo zero a zero finale e alla fine fui comunque contento. Il Catania non aveva vinto e non avevo visto nemmeno un gol, ma ero finalmente andato allo stadio, sia pure in tribuna e non in curva come i tifosi veri.
Era abbastanza da dovere un grosso grazie ai miei genitori e ad Antonio.

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