Calcio (a) Catania: da chi NON ripartire

Prendere in considerazione l’ipotesi di ripartire da Nino Pulvirenti se non per accantonarla immediatamente dimostra una preoccupante immaturità dell’opinione pubblica catanese, intesa come giornalisti e tifosi.

In primo luogo perché significa non distinguere il contesto storico attuale da quello che ha permesso gli anni d’oro del calcio rossazzurro.
Ai tempi della scalata alla Serie A, Pulvirenti era fresco del simbolico titolo di “imprenditore dell’anno”, era a capo di un impero da 300 milioni di euro di fatturato e impiegava quasi 1500 persone, ed il Catania partecipava al campionato cadetto.
Oggi Pulvirenti non può nemmeno essere considerato un imprenditore, visto che le sue aziende sono finite tutte male, con l’eccezione degli hotel, passati ad Alpitur. Anche ammesso che l’ex presidente fosse in grado di sovvenzionare con il proprio patrimonio attuale il rilancio del Club, bisognerebbe rispondere con un secco “no grazie” per motivi puramente etici.

Pulvirenti è responsabile del crack Wind Jet, sul quale la giustizia tarda a fare luce, che ha generato un buco di 160 milioni.
Inoltre Pulvirenti ha lasciato il Calcio Catania in tribunale, schiacciato dal peso di oltre 50 milioni di debiti. Se è vero che formalmente la società è fallita perché la successiva proprietà non ha ricapitalizzato, è altrettanto evidente che non c’era speranza alcuna di sopravvivenza con quel fardello.
Soprattutto il Serie C, dove il Catania è precipitato sempre a causa della condotta scellerata dello stesso Pulvirenti che prima ha scelto e confermato due volte Pablo Cosentino come amministratore plenipotenziario della società e poi ha tentato, in prima persona, di commettere diversi illeciti sportivi, esponendo consapevolmente il Club al rischio della mannaia della giustizia sportiva, che infatti poi ha colpito inevitabilmente.

Prima di farsi prendere dalla foga di ripartire, dunque, il popolo catanese deve prendere imboccare un processo di maturazione, o almeno prendere coscienza di averne bisogno, perché è l’unico modo di recuperare un minimo di credibilità.

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